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War Childhood Museum: l’infanzia in guerra raccontata attraverso oggetti e testimonianze

È iniziato tutto con un tweet. Jasminko Halilović, aveva poco più di quattro anni quando Sarajevo è stata assediata (aprile 1992- febbraio 1996) e come tutti i bambini dell’epoca la sua vita è stata divisa tra un prima e dopo la guerra. Il prima ben rappresentato dalle foto che ritraggono una vita normale, tranquilla; il dopo rimasto inespresso, interiorizzato. Da studente universitario, il paragone tra passato e presente è stato un pensiero ricorrente, tanto da portarlo, nel giugno 2010 a chiedere ai suoi follower su Twitter, ai suoi coetanei: “What was a war childhood for you? – Che infanzia in guerra è stata per voi? Ognuno avrebbe dovuto raccontare la propria esperienza, il ricordo più intenso, una sensazione utilizzando un semplice tweet, solo 160 caratteri.

Da quel momento ha preso le mosse un lavoro che tutt’ora è attivo nel raccogliere testimonianze.

“È un progetto sull’esperienza dei sopravvissuti – afferma Jasminko Halilović, nella prefazione al libro che raccoglie i tweet – anche durante la guerra c’è l’infanzia. E il progetto è un tentativo di raccontare la loro esperienza”.  

Progetto che adesso ha allargato il suo raggio d’azione, ha dato origine al “War Childhood museum” a Sarajevo, e che continua a raccogliere le esperienze da tutto il mondo. Perché durante la guerra i bambini sono ovunque indifesi e fragili allo stesso modo. E il pensiero non può, adesso, non andare ai bambini ucraini.

“L’idea iniziale era di raccogliere le risposte in circa tre mesi e di pubblicarle in un libro. Jasminko pensava che sarebbe finito tutto lì – afferma Amina Krvavac, direttrice del museo -. I mesi sono diventati tre anni, i tweet oltre mille e il libro è stato tradotto in diverse lingue (ancora non disponibile in italiano)”. Ciò che non si aspettava, poi, è accaduto durante la prima presentazione ufficiale. “In molti hanno voluto essere presenti e a fine evento si sono avvicinati a Jasminko raccontando che i loro ricordi erano legati a degli oggetti: lettere, immagini, o giocattoli – continua la direttrice -. E ognuno ha voluto raccontare la propria storia andando oltre il limite di 160 caratteri. Da questo ha iniziato a pensare che sarebbe stato necessario trovare un posto per raccogliere quegli oggetti, preservarli nel tempo, tirarli fuori dal ricordo personale e condividerli”. Così entra nel progetto la direttrice. “Nel 2014, lavorando insieme in un Think tank, ci siamo conosciuti, mi ha detto dell’idea del museo e mi ha chiesto se fossi interessata, anche io ero bambina durante la guerra – confida Krvavac -. In quel periodo ero presa da master sui diritti dei bambini, il progetto mi interessava dal punto di vista personale, ma non mi sentivo pronta a lavorare con questo tema, sui miei ricordi. Non ho voluto neanche leggere il libro, per non pensare a quel periodo”.

Poi in un pomeriggio si convince a sfogliare le pagine e a leggere qualcosa. “Mi ha fatto piangere, e a volte ridere su alcune cose – continua -. Alla fine ho accettato e un’altra collega abbiamo iniziato a sviluppare l’idea dandoci una metodologia per la raccolta degli oggetti e delle testimoniante e per e l’esposizione. Non avevamo altro, né soldi né spazi”.

Nel 2015 si è iniziato a registrare le testimonianze in video. “Avevamo anche degli psicologi per evitare che qualcuno stesse male ai ricordi – spiega la direttrice – e ad ognuno abbiamo dato massima libertà di tempi e di espressione. Il trauma è ancora tanto forte e in molti hanno trovato per la prima volta di raccontarsi. Rincuora che i bambini sono forti, anche nelle situazioni difficili”. Con i primi fondi è stata affittata una stanza nel Museo storico della Bosnia Erzegovina e in poco più di un anno si è raccolto oltre 2000 oggetti e più di 100 ore di testimonianze. E non solo di bambini vissuti a Sarajevo, ma di tutto il Paese.

“Dovevamo farlo vedere alla gente. Nel 2016 maggio, sempre nel museo si è organizzata una mostra temporanea di 10 giorni per mostrare l’idea del nostro progetto. È stata una cosa molto forte, non era mai stato affrontato così il tema della guerra, attraverso le testimonianze dei bambini. Dalla mostra i curatori hanno intuito la necessità della condivisione per rielaborare il trauma e creare legami nuovi, con tutti. L’efficacia non è stata compresa da tutti. E gli ostacoli nel trovare nuovi spazi da utilizzare ne è stata diretta conseguenza. “Ogni etnia voleva tutelare i propri ricordi ecco perché a livello amministrativo non abbiamo trovato appoggio – riporta con un po’ di sconforto -. La svolta è arrivata con dei finanziamenti raccolti dall’estero, con partners, vari enti e fondazioni, che hanno riconosciuto il valore del nostro lavoro e ci hanno permesso di affittare uno spazio privato per il museo. E tutt’ora il nostro progetto va avanti così”.

Nel 2018 il “War childhood museum” ha uno tra i più prestigiosi premi nel settore museale europeo, il Council of Europe Museum Prize, ed è diventato meta di ogni gruppo o visitatore a Sarajevo. Si svolgono seminari e laboratori dove si cerca di far capire l’assurdità della guerra e la complessità dell’esperienza di chi la vive. Al suo interno si possono vedere le scarpette di chi prima della guerra faceva danza, i ritagli di giornale dove le giovani promesse della ginnastica venivano citate; ma anche giocattoli, scatole degli aiuti umanitari, foto sbiadite dal tempo. Per ogni oggetto c’è una didascalia che ne racconta la storia, ed è impossibile non commuoversi. E poi c’è un televisore sempre acceso che riproduce le testimonianze video.

“Le guerre continuano in tutto il mondo ecco perché abbiamo iniziato, anche con la collaborazione con Caritas, a raccogliere le storie delle guerre attuali, come pure le esperienze dei migranti sulla rotta balcanica – conclude la direttrice -. Nel nostro archivio ci sono più di 5mila oggetti personali e un team in Ucraina, dove già da tempo era sbarcato il nostro progetto, ha raccolto più di 300 ore di testimonianze (prima che ci fosse l’invasione russa, ndr). I bambini si inventano tante cose per evadere dalla realtà e questa è la loro forza più grande per andare avanti”.

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