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“Uniamoci per difendere l’ambiente” da Zenica l’appello a Taranto contro l’inquinamento delle acciaierie

Il pullman prima di fermarsi in stazione ci passa accanto. L’acciaieria è proprio nella città, ai piedi delle colline, e colpisce per la grandezza e per quel color ruggine caratteristico. Le sue alte ciminiere fumano e diffondono nell’aria un odore acre. Zenica è una piacevole cittadina a circa 70 chilometri a nord da Sarajevo, si presenta piena di vita. Il dato negativo che pregiudica una vita tranquilla è la pessima qualità dell’aria, problema diffuso nelle città bosniache, qui ampliato proprio dalla presenza dell’acciaieria.

La sede dell’associazione Eko forum, che da anni si batte per la salute dei cittadini, si trova dall’altra parte del fiume Bosna, mi affretto per arrivare in tempo all’appuntamento. Il professore Samir Lemeš, presidente dell’associazione e docente al Politecnico di Zenica, mi accoglie con un gran sorriso, negli scaffali della libreria dietro di lui, tutto il materiale informativo prodotto negli anni.

“Seguiamo con molta attenzione quello che succede a Taranto – mi dice il docente dopo avergli riferito che vengo dalla Puglia -, e abbiamo provato a metterci in contatto con qualcuno di loro, ma noi non parliamo italiano e lì non parlano inglese e perciò le comunicazioni si sono interrotte. Abbiamo scambiato qualche messaggio su Facebook, seguo la pagina Giustizia per Taranto, e circa 4 anni fa, ho anche incontrato un loro avvocato durante una conferenza nella Repubblica Ceca, dove l’organizzazione ceca Arnika ha organizzato un incontro invitando tutti i paesi in cui si sono avuti problemi con Arcelor Mittal, dalla Polonia, all’Ucraina, al sud Italia – spiega il prof Lemeš – e ci siamo resi conto che l’azienda in ogni paese si pone allo stesso modo nei confronti dei cittadini e soprattutto con i governi, specie con quelli più poveri. La corporation ha un budget annuale venti volte più grande del bilancio della Bosnia Erzegovina, e così pensa qui di poter fare tutto quello che vuole. Anche se, un problema ce l’hanno qui: il sassolino nella scarpa siamo noi volontari di Eko forum”.

La storia dell’acciaieria risale al periodo della ex Jugoslavia.

“Quasi tutto l’impianto è della seconda guerra mondiale, i pezzi sono stati importati dall’ex Unione Sovietica, l’intera struttura è stata costruita per la Siberia, quindi per ambienti ampi e non per essere posizionata a valle tra le montagne. Si era consapevoli della pericolosità e durante gli anni Sessanta alcuni sindaci hanno provato a garantire delle compensazioni, dalla pulizia delle strade alla costruzione di resort sulle montagne per permettere alle persone di respirare aria pulita, o nella costruzione di ospedali. Non c’erano delle tecnologie per intervenire in altro modo. Per ridurre l’inquinamento il governo jugoslavo, negli anni ‘80, aveva ingaggiato dei professionisti dall’estero, dagli Usa e dalla Gran Bretagna, per un progetto innovativo. Poi è scoppiata la guerra e tutto si ferma – racconta l’attivista -. A conflitto terminato il Paese non aveva più la capacità di riavviare la produzione. L’impianto è rimasto abbandonato fino a quando il governo ha deciso che l’acciaio era importante, materiale strategico sul quale puntare e apre agli investimenti delle compagnie estere. Una decisione secondo me sbagliata”.

Nel 2004 la corporation Arcelor Mittal arriva in Bosnia, privatizzando l’acciaieria, gli accordi tra azienda e governo sono tutt’ora segreti. “Abbiamo chiesto al governo di rivelarli, ma si è alzato un muro – afferma Lemeš –. Abbiamo cercato di spiegare che non vogliamo informazioni sugli accordi finanziari, è il loro lavoro, ma vogliamo informazioni sui pericoli e sull’inquinamento, ma il governo continua a non rispondere”.

Nell’estate 2008 ripartire la produzione e con essa i problemi ambientali.

“Come si può essere al sicuro con una tecnologia così vecchia? Io credo che sia stato un errore riattivare la fabbrica, l’acciaio è il materiale del Ventesimo secolo, adesso si usa l’alluminio, la plastica, le fibre di carbone, l’acciaio non è più strategico come lo era prima. Ma abbiamo quello che abbiamo: rispettiamo le decisioni, ma vorremmo un confronto sull’inquinamento”. E il professore mi fa notare che nelle nazioni dell’Unione Europea l’azienda è tenuta al rispetto delle direttive, ma la Bosnia Erzegovina, paese extraeuropeo, ha un potere basso sul rispetto dell’ambiente.

“L’associazione è nata pochi mesi dopo la ripresa della produzione, per chiedere al nostro governo di intervenire, noi non possiamo parlare direttamente con la compagnia. E abbiamo subito chiesto un monitoraggio dell’aria e del terreno – continua il presidente -. Abbiamo iniziato a raccogliere i dati da soli, soffermandoci sulla salute della popolazione e studiando la relazione tra la salute e l’inquinamento. Ci sono report ufficiali, ma sono inutilizzabili: ogni volta che abbiamo usato quei numeri per dimostrare qualcosa loro rispondevano con i loro report. Abbiamo provato per anni a coinvolgere gli uffici pubblici del settore salute, pregandoli di darci le informazioni necessarie, di farci avere dei dati ma la risposta ottenuta è che hanno tanti altri disagi a cui badare (scusa molto gettonata qui in Bosnia Erzegovina, per qualsiasi problema si cerchi di affrontare, ndr). Seguiamo il caso di Taranto e ci è capitato di usare qualche loro espediente. Abbiamo chiesto al nostro governo di monitorare l’inquinamento sul suolo e piante e loro lo hanno fatto solo per cinque anni, confermando la presenza di metalli pesanti”.

E poi? Quale conclusione? “Il governo avrebbe dovuto fare tre cose: chiedere alla popolazione di non mangiare la verdura coltivata in zona; chiedere alla fabbrica di ridurre le emissioni; attivarsi per fornire qualche rimedio tampone, come piantare un tipo di vegetazione capace di estrarre i metalli pesanti dal suolo. Ma il governo non ha mai fatto questo, nonostante ci siano i soldi e tanti. Ma non vengono usati per il ristoro dei luoghi”.

Le difficoltà non fanno perdere d’animo i volontari di Eko forum, che continuano ad organizzare proteste, meeting, campagne di comunicazione, ed incontri con i più piccoli per sensibilizzare alla tutela dell’ambiente. Portano avanti, poi, anche delle azioni legali per affermare il diritto all’ambiente e alla salute.

“Il problema è sempre quello: non trovano evidenze tra l’inquinamento e la salute e le responsabilità dell’azienda vengono cancellate – continua l’attivista -. Vogliamo presentarci alla Corte Internazionale dei Diritti Umani, ma due problemi lo impediscono: il primo è il mancato riconoscimento dei rischi dell’inquinamento ambientale come diritto umano. E il secondo: andare alla Corte Internazionale significa aver avviato e finito il percorso legale nella corte del proprio paese, e non possiamo farlo, non abbiamo la capacità legale, non abbiamo avvocati capaci di portare avanti la causa e non abbiamo i fondi per sostenere le spese”.

Anche se l’associazione è piccola qualche passo in avanti lo si è fatto.

“La più grande risposta che abbiamo avuto è stata grazie ad un articolo sul “The Guardian”, nato da un episodio interessante. Un team di giornalisti della BBC, Channel 4, il canale che guarda il primo ministro britannico, sono venuti qui per fare un documentario, sono rimasti una settimana registrando video, parlando con le persone, raccogliendo dati – racconta Lemeš -. Mentre i giornalisti erano in fase di montaggio, ho iniziato a ricevere centinaia di email e diverse chiamate dai giornalisti: volevano sapere ogni dettaglio e quante più informazioni, perché un avvocato dell’Arcelor Mittal si è presentato in post produzione ed è rimasto per tutto il tempo, in attesa di un loro passo falso. Vista la tensione creata, l’emittente ha deciso di non realizzare più nulla. Un anno dopo un giornalista del Guardian è venuto a conoscenza della storia e ne ha fatto un articolo. Che ha dato una scossa molto forte, aiutandoci a farci sentire un po’ di più”. Il lavoro è ancora tanto, però, bisogna sempre essere vigili per monitorare e per non far ritornare i livelli di prima. “Ci piacerebbe avere dei partner per scambiarci esperienze e per continuare la nostra pressione insieme, è molto difficile combattere contro le grandi corporation se sei piccolo. Noi siamo piccoli, Taranto è piccola, ma se lavoriamo insieme è diverso”. L’appello è stato lanciato.  

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