Attualità

Sarajevo guarda Kiev e ricorda il conflitto nei Balcani

Le notizie provenienti dall’Ucraina, da Kiev, hanno fatto ripiombare Sarajevo nell’incubo di trenta anni fa, quando le milizie serbe hanno immobilizzato la capitale bonsiaca nel più lungo assedio dei tempi moderni, durato dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, portando morte e distruzione. Tutto qui parla ancora di quel tragico periodo e la paura che si possa ripresentare uno scenario simile si fa sempre più viva. Nel 1992 nessuno si aspettava la guerra, la popolazione non vedeva nelle tre etnie, serba croata e musulmana, un limite allo svolgimento della loro vita quotidiana. Poi la miccia si è accesa all’improvviso, l’intera nazione è ricorsa alle armi, l’odio ha preso il posto della pacifica convivenza, lasciandosi dietro uno strascico di sangue e ferite ancora da rimarginare. Sarajevo guarda Kiev e solidarizza con gli ucraini, stretti nella morsa delle rivendicazioni territoriali ed entiche dei russi. E spera che l’invasione in Ucraina finisca quanto prima, anche per scongiurare che l’onda di guerra possa di nuovo lambire i propri territori.

La preoccupazione della gente, poi, corre verso la Repubblica Serba (Republika Srpska), terzo membro della Repubblica Federale della Bosnia Erzegovina, e al suo presidente Milorad Dodik che minaccia autonomia dalla federazione.

Sono in atto da tempo le provocazioni del presidente che nega il genocidio avvenuto durante la guerra, e l’ultima si è avuta lo scorso 9 gennaio con la celebrazione della “festa nazionale” la Republika Srpska Day, con un tripudio di bandiere serbe. La festa è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema della Bosnia-Erzegovina e anche l’Unione europea l’ha condannata, minacciando sanzioni verso la Repubblica Serba. Risale poi ai primi di gennaio una lettera di alcuni parlamentari europei inviata alla commissione Ue, dove si denuncia l’escalation di tensioni politiche in Bosnia Erzegovina e si punta il dito sul ruolo di Oliver Varhelyi, Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, “apertamente colluso” con Dodik. Per un parlamentare è violando così gli accordi di Dayton.

Il presidente Dodik si fa forza dell’appoggio del premier ungherese Viktor Orban e del presidente russo Vladimir Putin, con il quale l’ultimo incontro risale ai primi di dicembre 2021. In quell’occasione Putin ha confermato il suo appoggio all’autonomia serba bosniaca. 

Gli accordi di Dayton con i quali si è permesso la conclusione della guerra, avrebbero dovuto traghettare la nazione verso una nuova forma governativa più stabile, di fatto tutto è rimasto com’era e hanno solo cristallizzato la divisione tra le tre etnie, lasciando così nell’incertezza un intero paese ed esacerbando ancora di più le differenze. Per ciò la situazione in Ucraina fa paura: basterebbe poco per far esplodere risentimento e tensioni e trascinare nuovamente i Balcani in una guerra fratricida.

Lo spettro di ciò che è stato è tornato preponderante nella mente di chi ha vissuto in guerra: nei negozi non si parla d’altro, la preoccupazione cresce. Le banche russe non garantiscono più i servizi e in tanti sono in fila per chiudere i conti e trasferirli in istituti di credito più sicuri.

Ed ecco che i gesti di solidarietà, l’illuminare i palazzi con i colori della bandiera Ucraina, gli stessi della Bosnia Erzegovina, le manifestazioni di chi in piazza invoca la pace, hanno qui un valore più intenso. La guerra non risolve niente, con le armi non si chiudono gli accordi. E in Bosnia Erzegovina lo sanno.

Ilaria Lia

Pubblicato il 28 febbraio 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno

Lascia una risposta