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Mons. Aničić e l’impegno di Caritas Banja Luka: “Una goccia nel mare dei bisogni”

Le immagini degli sfollati ucraini riportano ai tempi della guerra in Bosnia Erzegovina, quando tutti coloro che non erano di origine serba dovevano lasciare case e terreni. Non solo bosgnacchi e croati, ma anche italiani, ebrei e ucraini, che poi non sono più ritornati a casa: lo racconta il direttore di Caritas Banja Luka, mons. Miljenko Aničić.

“In questa zona, a Banja Luka e in tutto il territorio circostante, non ci sono stati combattimenti – ricorda il direttore Caritas, Mons. Miljenko Aničić -. Ma come in tutta la Bosnia Erzegovina le minoranze venivano mandate via. C’erano anche italiani e ricordo la storia della signora Vittoria, italiana decapitata in un paesino vicino a Banja Luka. All’epoca Caritas era già presente e cercava di dare conforto e aiuto come meglio poteva. Per dare continuità al lavoro, senza subire le conseguenze della guerra, è stato aperto un ufficio a Zagabria, dove i fondi e gli aiuti dall’estero, dall’Europa potevano arrivare facilmente per essere poi smistati nelle zone di maggiore bisogno”.

La Caritas a Banja Luka è nata 36 anni fa, nel periodo comunista. “I primi quattro anni eravamo limitati nelle attività: non potevamo aiutare la gente apertamente – spiega il direttore – nel 1990 il processo della democratizzazione già procedeva lentamente, ma proprio quando abbiamo iniziato a presentarci alla gente e cominciato a lavorare, è scoppiata la guerra. Ci siamo trovati coinvolti subito in questa nuova emergenza. Non avevamo ancora infrastrutture o personale preparato, tuttavia siamo riusciti a trovare tanti volontari, che prima di allora non avevano mai sentito parlare di Caritas e che per fiducia si sono messi a disposizione senza esitazione. Quello che facevamo in quel periodo era concentrato alla sopravvivenza, nel dare un primo soccorso alla gente attraverso la distribuzione di medicinali, cibo, vestiario, e altri generi di prima necessità”.

Così come Caritas sta facendo adesso, sull’attuale scenario di guerra: in Ucraina, come nelle nazioni confinanti, è presente per dare supporto e aiuto a chi è rimasto nelle proprie abitazioni, e per dare conforto ai profughi, a chi è scappato via.

“Durante la guerra, inoltre, cercavamo di avviare anche altri progetti, come la distribuzione di semi, per permettere alle persone di coltivare i propri orti – continua Mons. Aničić -. Due anni dopo la guerra, poi, il nostro impegno si è focalizzato sulla ricostruzione delle case, rimetterle apposto e far rientrare chi era andato via, aiutandoli anche giuridicamente con un ufficio apposito. Missione impossibile: sul 46% di popolazione non serba prima del conflitto, a guerra finita la percentuale è scesa al 5%, la struttura religiosa in questa regione è stata completamente cambiata”. 

Si è voluto mantenere bassa la percentuale delle minoranze. “Dopo la guerra, tra gli sfollati c’era una grande voglia di tornare nelle proprie case, ma non è stato un processo semplice: le amministrazioni trovavano dei cavilli per non permettere il rientro. Spesso le case erano state occupate e i processi per l’esproprio duravano molto tempo, troppo, tanto da demoralizzare i reali proprietari che poi decidevano di andare via – spiega Mons. Miljenko Aničić, che non nasconde come le lungaggini burocratiche avessero come scopo non dichiarato proprio la volontà di allontanare le diverse minoranze -. Abbiamo cercato di aiutare coinvolgendo anche altre autorità in altre zone, ma degli 80mila cattolici presenti qui, tra croati, italiani, polacchi, ucraini circa 60mila sono stati allontanati. Ne sono tornati poco più di 2000, percentuale bassissima”. Sono state ricostruite più di 2400 tra case e appartamenti, e si è proseguito nel dare aiuto per la sopravvivenza, impegno che continua invariato ancora oggi.

Tra i progetti avviati dopo la guerra, e che continuano ancora oggi, ci sono: l’aiuto ai giovani o a persone in bisogno gli anziani che avevano bisogno di assistenza in diversi modi; assistenza domiciliare per i malati, sia anziani che bambini impossibilitati ad andare a scuola; dopo la visita di Papa Giovanni Paolo II è stata costruita una casa di riposo per gli anziani a Banja Luka. Si è costruito una carpenteria, dove i falegnami lavorano e con i mezzi che hanno fatto hanno aiutato alla ricostruzione. C’è ancora la mensa dove ogni giorno si prepara un pasto per circa 30 persone. È stato fondato un centro per la famiglia, e fino a poco tempo fa era ancora attivo un programma dedicato alle donne incinte e uno per l’ascolto degli sposi.

“In tutti i nostri progetti accogliamo tutti, guardiamo i loro bisogni, non la loro appartenenza – ci tiene a precisare il direttore, che continua con l’elenco dei progetti -. C’è una casa dello studente per permettere ai ragazzi di frequentare le scuole superiori e 120 bambini sono stati inclusi nel progetto dell’adozione a distanza; continua il progetto “Your job”, che permette ai ragazzi di formarsi e di fare stage o praticantato nelle aziende; nel nostro edificio, il Centro sociale educativo, si svolgono percorsi formativi per assistenza agli anziani o per persone con bisogni speciali e i due corsi sono stati riconosciuti da parte del ministero della Republika Srpska”.

Nel Centro vengono svolti altri corsi con 40 programmi di diverso tipo, p*er l’avvicinamento a varie professioni. Recentemente è stato costruito un asilo nido e si attende l’inaugurazione; grazie all’aiuto della Caritas americana è stato attivato il progetto “Pro futuro”, che lavora sulla riconciliazione tra diverse etnie.

“Qui vicino abbiamo una piccola azienda, con circa 300 mucche, un caseificio e produciamo biogas – racconta il direttore – e da poco è partita la produzione di frutta e verdure nelle serre. Ci piacerebbe reinvestire i guadagni in nuove attività per aumentare i posti di lavoro. Questo progetto è finanziato anche dalle Caritas di Mantova e del Trentino Alto Adige, e molti italiani vengono per darci una mano durante l’estate”.

Caritas Banja Luka ha anche dei progetti al nord della Bosnia Erzegovina, a favore dei migranti sulla rotta balcanica, provvedendo a cibo, la lavanderia e progetti educativi per donne, bambini e minori non accompagnati.

L’elenco delle attività prosegue c’è un punto che è ancora più importante dell’aiutare la gente in difficoltà: la scuola della pace, per far tornare le persone alla convivenza pacifica. Cosa che è ancora difficile dopo la guerra e dopo gli accordi presi che hanno reso ancora più evidenti le diversità. “Il coltello dell’odio è sempre presente in questa zona – continua Mons. Aničić – anche per attenuare le diversità qui da noi lavorano più di 100 persone, di diverse provenienze. Purtroppo quello che facciamo è una goccia nel mare dei bisogni e tra i nostri limiti ci sono anche i sostegni esterni, adesso sempre più pochi. E la situazione in tutta la Bosnia Erzegovina è abbastanza difficile. C’è ancora gente che non ha niente da mangiare, che non ha un lavoro e che sicuramente non avrà neanche la pensione. Sappiamo già in anticipo che dovremo prenderci cura di loro. A pesare ci sono poi i problemi politici. E l’impressione che si ha della comunità internazionale è che non voglia capire che la domanda di nazionalità c’è ancora, ha portato alla guerra e adesso a nuovi problemi di politica non risolti, e che limitano e fermano tutti gli altri processi: dallo sviluppo economico, a quello sociale e altro”.

Alla domanda se c’è il timore di un nuovo conflitto risponde: “Esiste la paura, ma per me l’altra domanda fondamentale sarebbe: chi porterebbe le armi? Chi combatterebbe? Molti giovani sono andati a vivere fuori e la gran parte di chi ha già combattuto ora è vecchio. Tuttavia c’è paura, anche perché le tensioni interne si uniscono alle pressioni esterne e per la debolezza della Bosnia Erzegovina potrebbe essere un punto critico”.

il direttore Caritas Banja Luka, Mons. Miljenko Aničić

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