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La speranza rinasce a Srebrenica grazie al progetto di turismo ecosostenibile realizzato da Irvin

Dai finestrini dei tanti pullman che ho preso per spostarmi in lungo e in largo nella Bosnia Erzegovina sono sempre rimasta incantata dalla bellezza del paesaggio, dai fiumi gorgoglianti e dagli scorci mozzafiato tra le montagne, alte e lussureggianti. Solo l’incuria dell’uomo, in alcuni tratti, è l’unica nota stonata in un luogo in cui tutto è affascinante e merita di essere visitato. Ed è proprio dalla natura e dalla voglia di vivere nel pieno rispetto dell’ambiente che prende il via la storia di rinascita di Irvin Mujcic, tornato da qualche anno, dopo tanto girovagare, nella sua Srebrenica.  

Mi parla del progetto “Srebrenica – City of Hope” ovvero “Srebrenica – Città di Speranza”, e mi dice soddisfatto che gli anni bui della pandemia sono rimasti alle spalle e, se non ci saranno altri intoppi, nei mesi estivi ci sarà il pienone. Le piccole casette di legno nei boschi sono pronte ad ospitare nuovi visitatori. Irvin conosce benissimo l’italiano, avendo vissuto in Italia per tanti anni. Il suo viaggio parte da un campo profughi in Croazia dove aveva trovato sistemazione momentanea per i bosniaci in fuga dalla guerra.

“Sono arrivato in Italia, con mia madre, mia sorella e mio fratello, il 9 agosto ’93, grazie ad un programma di accoglienza profughi internazionale – racconta mentre si prepara una sigaretta -; salpati da Spalato, arrivati al porto di Ancona quel giorno si occupavano dell’accoglienza alcuni comuni della bresciana: ci hanno ospitato in un piccolo comune tra le montagne in Val Camonica. Ci sono rimasto per dodici anni. All’inizio tutti noi pensavamo che sarebbe stata una soluzione temporanea, per qualche mese, finché la guerra non fosse finita. Poi siamo rimasti e mia madre ci abita tutt’ora”.

Ciò che gli è successo prima è riportato anche nel libro “Maledetta Sarajevo: Viaggio nella guerra dei trent’anni. Il Vietnam d’Europa” scritto dai giornalisti Francesco Battistini e Marzio G. Mian, dove con interviste esclusive e ricostruzioni storiche raccontano dell’assedio e della guerra che con i suoi orrori ha imperversato su tutto il Paese.

“Avevo circa cinque anni e mezzo quando ho lasciato Srebrenica, era il 16 aprile 1992. Ricordo che non volevo partire, volevo rimanere lì con mio padre – continua Irvin -; mia madre era riuscita a trovare i biglietti dell’autobus per andare a Tuzla, ancora non lo sapevamo ma sarebbe stato l’ultimo disponibile per lasciare la città prima dell’assedio dei serbi. Quella mattina sono scappato nella foresta dietro casa, i miei mi hanno cercato per tanto tempo e quando mi hanno ritrovato sono sparito di nuovo. Non ero andato molto lontano, mi ero nascosto nella mia stanza, dietro la porta, e avevo un sacco nero dove avevo messo i miei giocattoli. Volevo portarli con me, ma non mi è stato concesso, “non avevamo tempo e spazio”, è stata la risposta di mia madre che per consolarmi mi ha detto che al ritorno li avrei trovati lì, al loro posto”.

Così non è stato e Irvin, una volta ritornato, non ha più trovato neanche suo padre. Ucciso nel luglio ’95 a Potočari.

Irvin cresce e dal piccolo comune bresciano si trasferisce a Roma. “Ho studiato filosofia ma non ho mai finito l’università, nel frattempo ho iniziato a lavorare con dei progetti europei su empowerment per i giovani, mi occupavo di diritti umani; in quell’occasione seguivo, come mediatore culturale e linguistico, una comunità Rom, proveniente dalla Bosnia Erzegovina – con loro si sentiva a casa e aggiunge -: stare lì mi ha fatto riaffiorare alcune sensazioni ed emozioni. L’associazione per la quale lavoravo mi riprendeva spesso e volentieri perché fraternizzavo troppo con “gli oggetti del mio lavoro”, cosa per me impossibile non fare: parlavamo sempre della Bosnia, cucinavano i piatti tipici e si era creata tra noi una speciale sinergia. Impossibile mantenere un approccio asettico con loro”. Chiusa l’esperienza inizia a viaggiare rimanendo un anno in Tunisia, uno in Egitto e stabilendosi poi a Bruxelles, per lavorare con la Commissione europea.

“Sono rientrato in Bosnia per la prima volta dalla fuga nel ’98, mentre per mia madre è stato nel 2003, e da quel momento ci sono ritornato regolarmente – spiega -. A Bruxelles lavoravo ad un progetto di raccolta dati e informazioni su tutti i campi rom in Europa, nel 2014 si stava organizzando un progetto per giovani europei, sulla memoria del genocidio Rom durante la Seconda guerra mondiale, e tra le varie tappe del viaggio proposto ai partecipanti ho chiesto di inserire anche una visita a Srebrenica, in occasione della manifestazione dell’11 di luglio, e della marcia della pace, la marcia commemorativa delle vittime del genocidio. Quel tragitto e l’esperienza vissuta mi hanno fatto rinascere la voglia di tornare di nuovo a casa. Dopo qualche mese ho deciso di lasciare il mio impiego a Bruxelles. Mi ero stufato della città e dello stile di vita occidentale, frenetico e incentrato sull’ego, sulla carriera e su altre cose che non mi attiravano più. Ho preso una pausa di un anno e ho deciso di spenderlo in Bosnia, senza pensare che poi ci sarei rimasto”.

È il primo passo verso la creazione di “Srebrenica city of hope”.

“La cosa che mi ha sempre fatto strano è vedere quanto siano lontani le persone negli uffici, dove si devono prendere le decisioni politiche, rispetto alla realtà delle persone – spiega il perché della decisione mai rimpianta -. La vita reale non è quella di chi lavora lì dentro, e mi sono accorto che non era più per me”.

Una volta rientrato a casa, per prima cosa, è diventato turista nella sua stessa città, iniziando a fare lunghe passeggiate per conoscerne ogni centimetro. “Ho cominciato a girovagare a piedi per i boschi, finendo anche in campi minati, e nel mio vagabondare ho trovato molti villaggi, paesaggi mozzafiato, luoghi che ignoravo esistessero e soprattutto ho avuto modo di conoscere l’umanità delle persone, in ogni villaggio mi hanno sempre accolto bene. E ancora di più diventava inaccettabile l’idea che la Bosnia Erzegovina fosse conosciuta solo per la guerra e per le sofferenze”.

Nella sua testa, l’immagine di Srebrenica come luogo solo di silenzio e di commemorazione, si frantuma immediatamente, mentre prende sempre più spazio l’idea di fare qualcosa per dare risalto “alla dimensione naturale e alle realtà che ancora sopravvivono in maniera rurale, che rimangono veri e intatti al di là dello spazio e del tempo”. E tutto inizia a concretizzarsi quando per caso incontra il “Gruppo italiano Amici della natura”, di cui una sede si trova poco distante dal paesino dove è vissuto in Italia, affiliato al gruppo internazionale dei “Naturfreunde”, oggi una delle associazioni ambientaliste green tra le più grandi al mondo. “Con loro ho messo a punto un progetto di turismo sostenibile dolce a Srebrenica e pian piano siamo riusciti a realizzarlo – spiega Irvin -. Il nome “Srebrenica city of hope” parte proprio dalla necessità di dare speranza e di far rivivere la città che ancora adesso è ferma a quel 1995, mentre invece merita molto di più”.

Non solo immagini del memoriale, di fosse comuni o della commemorazione dell’11 luglio quindi, la natura che circonda la città è di una bellezza disarmante e vale la pena rimanere qualche giorno in più. “Basta con il turismo macabro, che non permette neanche a chi ci abita di andare avanti. I sopravvissuti al genocidio sono ritornati a vivere qui, pensando che Srebrenica sarebbe tornata ad essere la cittadina vivace che era un tempo, animata dal turismo, grazie anche al suo circuito termale. Invece i turisti non arrivano neanche in città, fanno il loro giro commemorativo e vanno subito via. E non sono pochi gli abitanti che per questo, hanno scelto di andare via di nuovo. Srebrenica non deve essere solo un cimitero e con il mio progetto vorrei impegnarmi ad invertire la tendenza, a dare il mio piccolo contributo”.

Vivere a contatto con la natura, in casette a basso impatto ambientale, tra percorsi di hiking e trekking, in un luogo d’incontro tra persone e culture, di scambi di esperienze e di vita con le persone del posto, mangiando i gustosi piatti tipici.

“I numeri dei visitatori sono cresciuti di anno in anno e adesso abbiamo deciso di fare un altro step costruendo un nuovo villaggio seguendo la tradizione della costruzione con il legno – conclude Irvin – e allo stesso tempo di raccogliere le migliori prassi a livello ecologico e di metterle a frutto”.

Per l’impegno di Irvin, per la memoria dei luoghi, vale la pena fermarsi un po’ di più e lasciarsi cullare dalla natura.

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Ilaria Lia

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