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Ius scholae e inclusione scolastica: i diritti degli studenti stranieri alla mercé degli umori politici

Probabilmente non è nell’agenda di questo Governo dare la cittadinanza italiana ai ragazzi che frequentano le scuole e che crescono con i nostri figli, che passano il tempo con loro, che hanno gli stessi riferimenti culturali e che si impegnano nello sport o in altre attività, spesso ottenendo ottimi risultati. Sicuramente ci sono altre priorità in un contesto storico come quello che stiamo vivendo in cui le tante emergenze ci stringono in una morsa senza darci respiro. Ha ragione il sottosegretario all’Istruzione, Rossano Sasso (come ha dichiarato in un’intervista rilasciata sul vostro giornale lo scorso 1° luglio 2022) a dire che non si possono strumentalizzare i bambini. Ed è scorretto presentare negli ultimi mesi di legislatura una proposta che merita una riflessione di più ampio respiro. Sicuramente, dato il suo ruolo, saprà benissimo qual è la condizione degli studenti stranieri in Italia e di quanto lavoro ancora ci sia da fare per favorire l’interazione linguistica e sociale. Compito che spetta a tutti i governi, compreso l’attuale.

Ogni istituto, in tutta Italia, presenta la sua percentuale di ragazzi stranieri (il monitoraggio lo fa il Miur per ogni regione), ma ancora manca un protocollo valido e adottato a livello nazionale che garantisca al discente di essere seguito correttamente nel suo percorso didattico e che possa permettere alla famiglia di confrontarsi senza ostacoli con l’istituzione scolastica. Ogni regione fa a modo suo, a sua discrezione.  

La presenza dei mediatori interculturali, figura importantissima in ogni settore della società così composita come lo è anche quella italiana, è legata solo ad alcuni progetti limitati nel tempo, e invece dovrebbe essere inserita in pianta stabile a scuola (la proposta di legge presentata alla Camera il 20 febbraio 2020, alla quale hanno lavorato un gruppo di mediatori e associazioni punta al riconoscimento della professione e al suo inserimento in ogni ambito necessario).   

In più: è stata istituita la classe A23 – Lingua italiana per discenti di lingua straniera, il primo concorso si è svolto nel 2016, eppure non si sa ancora che ruolo e mansione dare ai nuovi docenti, come utilizzare le professionalità di chi si è formato e preparato. La loro presenza in classe sarebbe un valido supporto per la didattica. E per evitare che ci siano diseguaglianze e discriminazioni, anche da parte di alcuni insegnanti che non sanno o non vogliono interagire con gli alunni stranieri.

Questi sono solo alcuni esempi di quello che si deve ancora fare nella scuola italiana, ci sarebbe da discutere anche sul riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero. Forse si può aspettare per lo Ius Scholae, (la proposta dell’onorevole Giuseppe Brescia, tra l’altro, dà un contributo minimale alla causa) ma va ricordato che dare la cittadinanza a chi studia significa anche permettere ai ragazzi di sentirsi interamente parte di una comunità, amarla e rispettarla; di potersi sentire liberi di vestire e di truccarsi all’occidentale e di poter perseguire ambizioni e scelte di vita, senza sentirsi affibbiati addosso un’etichetta di una cultura che non hanno conosciuto personalmente o che non sentono propria e rispondente alle loro esigenze. La cittadinanza serve anche a dare speranza ai genitori che hanno fatto sacrifici per rendere la vita dei figli migliore della propria. Come è successo ai figli dei nostri emigranti in Svizzera o in Germania, ad esempio.

Il governo provi a dare risposte certe sulla scuola, il primo e vero luogo di socializzazione e interazione. E poi si avvii un discorso serio sul conferimento della cittadinanza italiana, magari equiparandosi ai livelli delle altre nazioni europee.

Contributo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 5 luglio 2022

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