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Il lavoro costante e duro dei volontari a Lipa: “Chi vuole aiutarci ci contatti”

Al momento la Bosnia Erzegovina non è contemplata tra i Paesi che possano ospitare i profughi ucraini, in fuga dalla guerra. Qui, anche se i numeri si sono ridimensionati, c’è un’altra emergenza a cui far fronte e riguarda i migranti sulla rotta balcanica: il governo locale, però, non ha risposto con l’accoglienza diffusa, ma con dei container lontani dai centri abitati, come a Lipa, a 30 km dalla città di Bihać, nel cantone di Una Sana, su un altopiano circondato da boschi e montagne. E l’eco della guerra ucraina potrebbe rendere concreto il rischio di rallentare il lavoro delle associazioni umanitarie, impegnate a dare conforto e dignità ai migranti in transito. Le disposizioni contro i profughi sono molto restrittive e la retorica dominante nel cantone che li ospita afferma “hanno tutto, non c’è bisogno che escano dai campi d’accoglienza”, ma la realtà è diversa e molto più dura.

“Alle lacune sopperiscono le organizzazioni. Sono principalmente tre i progetti che siamo cercando di portare avanti: le cucine collettive, le lavanderie e il social corner – afferma Silvia Maraone, esperta di Balcani e migrazioni, coordinatrice di progetti sulla rotta balcanica, per Ipsia-Caritas –. Quello delle cucine è un progetto storico che abbiamo rimesso in funzione: esiste la struttura con i bracieri manca la legna e il cibo, i migranti dovrebbero recuperarli da soli non tutti hanno la possibilità di farlo. Al supporto offerto da Acri, ora anche tramite alcune associazioni del trentino e all’arcidiocesi di Trento compriamo legna che viene distribuita due volte alla settimana. Contiamo da metà marzo di fare delle liste con tutti i beneficiari e verranno distribuiti ogni giorno dieci sacchi di ingredienti. Chi vuole darci una mano nel portare avanti i progetti può contattarci”.

Esiste già un punto lavanderia, servizio svolto in collaborazione con la Croce Rossa di Bihać, ma non è sufficiente. Ci sono solo due asciugatrici e due lavatrici; ogni giorno gli operatori distribuiscono il bucato pulito e prendono lo sporco, posto in un sacchetto di stoffa a cui corrisponde un numero.

Nel campo altri lavori procedono alacremente: la ricostruzione della tensostruttura recuperata dal vecchio campo di Lipa realizzata da Ipsia e Caritas Milano, adibita a moschea e da terminare per fine marzo, in occasione dell’inizio del Ramadan; le cucine nello spazio dedicato ai minori e alle famiglie. Si sta lavorando anche per ripristinare alcune strutture recuperate dagli altri campi chiusi, come l’outdoor gym, fatta da Ipsia e Caritas, proveniente da Sedra chiuso il 30 giugno 2021, e ancora un campo per gli scacchi e per la pallavolo.

L’attuale centro di accoglienza è previsto per 1500 persone, è diviso in tre aree: famiglie con 300 posti, minori non accompagnati con 200 posti e zona per single man per 1000 posti. Ogni area ha un reparto quarantena; c’è un presidio medico aperto h24 ed è presente un’ambulanza che per i casi più gravi fa attività di ospedalizzazione.  Attualmente ospita afghani, pakistani, i più numerosi, persone dal Bangladesh, Nepal, Iran, Iraq e per la prima volta anche una ventina di cubani.

“Era l’aprile 2020 quando proprio nella stessa posizione dell’attuale era stato creato il primo campo – spiega Maraone – per offrire riparo alle migliaia di migranti che nonostante la pandemia erano in transito, e che per le misure anticontagio non potevano entrare nei campi già esistenti. C’erano quattro tensostrutture, allestite come Emergency Temporary Camp, gestito dall’Iom insieme alle associazioni partner. Il 23 dicembre 2020 è andato distrutto a causa di un incendio. Per dare riparo alle 1500 persone rimaste fuori, nel gennaio 2021 il governo bosniaco con l’ufficio per i servizi agli stranieri ha creato un campo improvvisato, di fronte, con 30 tende militari da 30 posti l’uno per 900 persone ed è lì che abbiamo operato per un anno intero”.

Attualmente il campo di Lipa è stato riconvertito in un Trc, Temporary reseption center, come gli altri presenti a Ušivak, Blažuj, Borići e Miral. Il governo bosniaco ne è responsabile e viene supportato dall’Unione Europea, Iom e diverse organizzazioni e governi esteri, tra cui anche quello italiano.

“L’Italia contribuisce al miglioramento delle politiche migratorie del Paese, attraverso la collaborazione tra il MAECI e l’IOM: una partnership che ha direttamente contribuito, grazie a stanziamenti a valere sul Fondo Migrazioni del MAECI, alla realizzazione del nuovo Centro di accoglienza migranti di Lipa – afferma l’ambasciatore italiano in Bosnia Erzegovina, Marco Di Ruzza -. Una struttura certamente meglio organizzata, con più ampie capacità ricettive e maggiori servizi rispetto al campo in precedenza allestito dall’esercito. In confronto alla drammatica situazione umanitaria vista nell’inverno 2020 e portata alla ribalta anche dai media, sono stati dunque realizzati nello spazio di pochi mesi importanti passi in avanti nella gestione del fenomeno, frutto di un efficace raccordo tra la comunità internazionale e i vari attori locali, ai vari livelli della complessa stratificazione amministrativa del Paese, coinvolti nel processo”.

L’obiettivo più difficile da raggiungere è senza dubbio il dare supporto psicologico. “Carenza riscontrabile ovunque in queste realtà. Da una parte c’è una debolezza culturale, probabilmente, anche per la popolazione jugoslava il recupero del trauma non è stato affrontato – conclude Silvia Maraone – e difficilmente, quindi, è riconosciuto per le persone in transito. Poi c’è una mancanza di mediatori culturali e interpreti che si associa poi al senso di sfiducia che i migranti avrebbero nei loro confronti: per ritrosia o poca fiducia in tanti non vogliono raccontare i propri vissuti a persone dello stesso paese. In ultimo: è molto difficile offrire un supporto psicologico efficace a migranti perennemente in transito”.

Anche gli operatori soffrono le fatiche psicologiche legate agli interventi. “Noi di Ipsia offriamo una supervisione da uno psicologo dell’emergenza, online, ogni tre settimane – conclude la responsabile – per prevenire il burn out o affrontare temi specifici”.

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