Trenta anni fa, gli “Accordi di Dayton” posero fine alla sanguinosa guerra nel cuore dell’Europa, nell’ex Jugoslavia. Il documento, siglato il 21 novembre 1995 nella base americana di Dayton e formalizzato il 14 dicembre a Parigi, diede vita a uno stato federale composto dalla Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza croata e bosniaca, e la Repubblica Srpska, a maggioranza serba. Così si è posto fine ad una guerra sanguinosa che ha visto in prima fila per la pace don Tonino Bello, vescovo di Molfetta a pochi mesi prima della sua morte.
A raccontare cosa è cambiato è Daniele Bombardi, attualmente coordinatore di Caritas Internazionalis, di stanza a Sarajevo, per anni coordinatore per l’area balcanica di Caritas Italiana.
A trent’anni dagli accordi di Dayton, che ha segnato la pace dopo anni di guerra e sofferenza, qual è il clima che si respira in Bosnia Erzegovina?
“La Bosnia Erzegovina di oggi è sicuramente il frutto e il prodotto degli accordi di Dayton: nel bene e nel male, questa cornice imposta nel 1995 è quella dentro il quale il paese si è sviluppato in questi 30 anni. Dopo 30 anni è evidente come oggi il paese funzioni male, da tanti punti di vista: economico, politico, sociale, ambientale. La spia maggiore di questo malfunzionamento è l’emigrazione di massa dei suoi cittadini: decine di migliaia di persone che ogni anno se ne vanno a vivere all’estero, perché non credono più che sia possibile costruirsi un futuro sereno in questo paese.
30 anni dopo la fine di una guerra, ci si aspetterebbe invece che un paese rinasca, si sviluppi, che cerchi di dimenticare la guerra stessa, che guardi al futuro: per esempio, pensiamo all’Italia del 1975, trent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In Bosnia Erzegovina invece non è così, la guerra è ancora uno spettro presente nella quotidianità del paese, le sue conseguenze sono ancora evidenti. È quindi evidente, osservando l’oggi, che tante cose degli accordi di Dayton non hanno funzionato bene”.
Quali sono stati secondo te limiti e vantaggi dell’accordo, che in qualche modo sono stati imposti, da un Occidente incapace di capire la peculiarità del paese?
“Il vantaggio enorme di Dayton, da non sottovalutare mai, è stata la fine dei combattimenti. Grazie a Dayton molte vite sono state salvate, molto dolore aggiuntivo è stato evitato, molte infrastrutture e case sono state risparmiate, dopo 4 anni di guerra fratricida tra il 1992 e il 1995. Questo è un grande risultato, che ci dovrebbe insegnare qualcosa anche oggi, quando sentiamo parlare degli accordi di pace “giusti” o “ingiusti” da firmare o non firmare in Ucraina, a Gaza, o in altri scenari di guerra. Io penso davvero che un accordo di pace, per quanto ingiusto, è sempre meglio della guerra, e risparmia le vite delle persone, come ha dimostrato Dayton. Quindi ben vengano gli accordi che terminano i combattimenti, ovunque nel mondo.
Detto questo, però, non possiamo accontentarci di prendere per buono qualsiasi accordo che viene firmato. Dayton per esempio doveva essere solo una soluzione temporanea e provvisoria per fermare la guerra: già si sapeva nel 1995 che non era quello il quadro giusto per costruire un futuro sereno in Bosnia Erzegovina. Poi per tanti motivi storici invece non si è più messo mano agli accordi di Dayton, che così sono ancora in vigore, tali e quali a 30 anni fa, e come previsto hanno creato un paese disfunzionale, in continua difficoltà e in crisi. Mi piace citare monsignor Pero Sudar, ex Vescovo ausiliario di Sarajevo, che descrive Dayton come “una cornice storta dentro cui si prova a mettere un quadro dritto: è impossibile, non ci entrerà mai, devi prima cambiare la cornice”.
Come si dice da queste parti, “Dayton ha fermato la guerra ma non ha creato la pace”: credo che sia una espressione molto giusta, che si può applicare anche agli accordi stipulati qualche mese fa per fermare il genocidio a Gaza, o quelli che si stanno discutendo per fermare la guerra in Ucraina. Sono tutti strumenti utili a fermare i combattimenti, e quindi ben vengano nell’immediato, ma poi serve lavorare a qualcos’altro per costruire un futuro di pace vero”.
Com’era la Bosnia appena sei arrivato? Quali sono state le principali emergenze sociali a cui hai dovuto far fronte?
“Sono arrivato nel 2005 in Bosnia Erzegovina, cioè 10 anni dopo Dayton, e 5 anni dopo la guerra nella vicina Serbia per il Kosovo. Non c’era dunque più la guerra combattuta, ma erano evidentissimi tutti i problemi creati dalla guerra: centinaia di migliaia di profughi che non avevano ancora potuto rientrare nelle loro case, infrastrutture non ricostruite, un’economia debolissima, livelli di povertà ed esclusione sociale molto alti in tante fasce della popolazione – penso alle persone sopravvissute ai lager degli anni Novanta, agli anziani abbandonati nelle città e nelle campagne, ai disabili esclusi da tutto, alle persone con disturbi mentali causati anche dalla guerra, ai bambini rimasti orfani. Noi abbiamo cercato di dare una mano a tutte queste vulnerabilità, nei limiti delle nostre forze e delle nostre risorse.
Devo dire però che, anche se la situazione complessiva era forse peggiore di adesso da un punto di vista economico, c’era però una cosa che funzionava molto meglio 20 anni fa: la speranza in un futuro migliore. Subito dopo la guerra tutti avevano ancora forte la sensazione che il peggio era passato, avevano il sogno che – anche se c’erano tanti problemi da affrontare nella quotidianità – un giorno le cose sarebbero andate meglio. Tutti erano pronti a rimboccarsi le maniche per costruire qualcosa di meglio per sé e per i propri figli. Oggi questa speranza è stata sostituita da una grande disillusione: la gente dopo 30 anni non crede più che il futuro sarà migliore in questo paese, né per sé né per i propri figli, e preferisce andare a rifarsi una vita in Germania, in Austria, nei paesi scandinavi”.
L’apporto solidale degli italiani, di Caritas così come delle altre organizzazioni, è stato fondamentale. Cosa resta di tutto quell’impegno e qual è il riconoscimento tributato dalla popolazione?
“La cosa per me più incredibile in questi 20 anni di lavoro è stata quella di scoprire una miriade di esperienze italiane di solidarietà nei confronti di questo paese, e ancora oggi ne incontro e ne scopro sempre di nuove: associazioni, parrocchie, comuni, famiglie, anche singoli individui, c’è veramente una marea di italiani che sono stati e sono ancor oggi solidali con le comunità della Bosnia Erzegovina. Anche dalla Puglia il numero di persone e associazioni è stato ed è ancora enorme: su tutti, mi piace sempre ricordare don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, grande attivista per la pace in questo paese, soprattutto verso la Sarajevo assediata, e grande leader dei movimenti non violenti che si interessavano alla Bosnia Erzegovina.
Le comunità bosniaco-erzegovesi sono ovviamente estremamente grate di tutto l’aiuto offerto, non solo sottoforma di supporto materiale o economico che è stato fornito, ma anche per la vicinanza umana che hanno dimostrato: ancor oggi, a distanza di 30 anni, ci sono migliaia di italiani che tornano qui per incontrare i loro amici qui, per mantenere saldo anche il rapporto umano, al di là dei soli aiuti materiali, e questo è davvero molto apprezzato”.
Ci sono nuove emergenze o sono rimaste sempre le stesse?
“Tante emergenze sono rimaste le stesse, magari sono un po’ cambiate nel tempo, ma chi era tra gli esclusi 20-30 anni fa, molto spesso lo è ancora oggi: anziani, disabili, malati mentali, ex detenuti nei lager, profughi. Solo da una decina d’anni si sono aggiunte due emergenze “nuove” per il paese: le catastrofi naturali che colpiscono il paese (penso ad esempio alle grandi alluvioni del 2014, o a quelli delle frane dello scorso ottobre 2024), e la migrazione lungo la cosiddetta “Rotta balcanica” che passa anche dalla Bosnia Erzegovina. Le catastrofi naturali hanno colpito cittadini bosniaco-erzegovesi che magari si erano anche rifatti una vita normale, cancellata poi di colpo dall’acqua o dal fango. La migrazione ha invece portato nel paese persone da tutto il mondo, soprattutto dal Medio Oriente e dal Nord Africa, che cercando di raggiungere l’Europa Centrale passando dai Balcani e che si trovano a dover vivere in strutture inadeguate, in campi fatiscenti o in squat improvvisati – tra di loro anche molti bambini e donne”.
Cosa sperano i giovani? L’Europa è vista come orizzonte da raggiungere?
“I giovani bosniaco-erzegovesi hanno una doppia opinione sull’Europa. Da un lato la ammirano, la vedono come il luogo in cui c’è maggiore benessere economico, dove i diritti sono tutelati, dove si può viaggiare senza confini, ed infatti molti di loro vanno a studiare e a lavorare nei paesi europei – dove tanti addirittura si fermano e si rifanno una vita. Dall’altro lato però sono molto delusi soprattutto dall’Unione Europea e dagli ostacoli che l’Ue ha messo alla Bosnia Erzegovina nel processo di adesione: pensavano di trovare molta più comprensione da parte dei paesi comunitari verso questo paese, dopo una guerra terribile e dopo essere stati costretti a svilupparsi nella “cornice storta” di Dayton, e che li aiutassero a entrare nell’Ue. E invece sentono di non essere benvenuti, perché gli stanno ponendo sempre più condizioni, riforme e ostacoli. Questo demotiva e delude molto il sogno europeo dei giovani locali”.
Ci sono delle iniziative per celebrare la ricorrenza?
“Non molte, a dire la verità. Gli accordi di Dayton non sono un fattore “speciale” da ricordare, proprio perché sono accordi che hanno scontentato tante persone e che hanno bloccato il paese in questi 30 anni. Si è celebrato il trentennale della fine della guerra, quello sì è un evento da ricordare e da festeggiare, ma non c’è molto da celebrare del resto delle cose che stanno scritte dentro gli accordi di Dayton. Ci sono poi partiti politici oggi, soprattutto i più nazionalisti e secessionisti, che addirittura considerano Dayton come un male assoluto e che da tempo alimentano una retorica anti-Dayton e anti-unità nazionale”.
Che cosa ti auguri per il futuro?
“È difficile dire cosa ci si possa augurare per il popolo bosniaco-erzegovese affinché migliori la sua situazione attuale. Sicuramente Dayton è da superare e la Bosnia Erzegovina dovrebbe adottare una propria Costituzione più funzionale e più attenta alla tutela dei diritti delle persone. Però molti analisti pensano che “mettere mano a Dayton” o addirittura superarlo sarebbe un rischio molto elevato, perché potrebbe alterare i fragili equilibri etnici e politici del paese, rischiando di riaprire ferite non ancora superate, e di riportarlo in situazioni di conflitto interno. È un vero dilemma dentro il quale la Bosnia Erzergovina si trova da 30 anni. Forse davvero l’unico augurio da fare al paese sarebbe quello di riuscire quanto prima a entrare nell’Unione Europea, per entrare così in un sistema di stabilità e di tutela dei diritti, senza rischiare di compromettere la propria stabilità interna”.





10 dicembre 2025
Ilaria Lia

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